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Jovanotti, Ramazzotti e Senese nel nome di Daniele
Lo aveva promesso, un omaggio a Pino Daniele, e lo sta preparando, alla sua maniera, mentre al San Paolo fervono i lavori al palco a forma di fulmine con cui domenica tornerà nello stadio di Napoli, in cui esordì quel 13 giugno 1994. Era l’anno del supertrio Daniele, Jovanotti e Ramazzotti, «Pino ritrovava la sua città dopo una lunga assenza, era spaventato, entrò nei camerini a prima mattina e ci rimase chiuso fino al momento di entrare in scena: fu un sabba d’amore», ricorda Lorenzo Cherubini, che poi strinse amicizia con il nero a metà, e l’amico ha promesso di ricordare, oltre che l’artista, il caposcuola, il faro di riferimento, l’icona di una città-cultura e di un popolo musicale: «Farò qualcosa per lui, non so ancora cosa, ci sto ancora pensando», ha detto nelle settimane passate.
«È inevitabile, può essere frainteso, ma io sento di doverlo fare: mi esibirò nella sua casa, nel suo stadio, davanti alla sua gente… devo farlo, sarebbe illogico fare altrimenti». E lo sta preparando alla sua maniera, coinvolgendo in segreto l’amico che era con lui in quel tour mai documentato da un cd o un dvd, quell’Eros a cui è toccato l’ingrato compito di comunicare al mondo con un tweet la morte dell’uomo in blues. E poi cercando il musicista-simbolo della prima stagione creativa del neapolitan power, James Senese, un sassofono chiamato «Chi tene ’o mare, ’o ssaje, nun tene niente». Appena possibile proveranno, si sentiranno per capire cosa e come fare, in quale momento dello show inserire quella che doveva essere una sorpresa, valuteranno se ci saranno le condizioni per renderla realtà. Un supertrio inedito, un supertrio-citazione, un supertrio pronto al grido squassante della notte di Fuorigrotta: «Pino, Pino, Pino». Quando c’era lui al San Paolo era Troisi l’oggetto dell’omaggio, era «Massimo, Massimo, Massimo» il grido d’ordinanza. Oggi sul campo verde che fu casa di Maradona l’inno quasi ufficiale della squadra è diventato «Napule è», ed anche Vasco Rossi, riaprendolo alla musica, non ha potuto fare a meno di dedicare un pensiero ad uno dei maestri assoluti della canzone, e della musica, d’autore italiana. Quattro, sembra, i brani che Jovanotti, Senese e Ramazza («lo chiamavamo così con Pino») potrebbero proporre assieme, non si sa ancora quali, probabilmente tratti dal canzoniere pinodanieliano, probabilmente conditi da un rap-pensiero del ragazzo fortunato: «Fortunato di averlo conosciuto, di averlo frequentato, di essere stato ammesso nella sua famiglia», spiega.
«Ci frequentavamo con le nostre fidanzate poi diventate mogli, lui mi parlava sempre di musica, ed io mi nutrivo dei suoi insegnamenti. Il primo concerto che ho visto nella mia vita, al Palaeur di Roma, nel 1981, era suo, mi ha segnato l’esistenza, artistica e sentimentale. “Nero a metà“ è un album-capolavoro, per parole certo, ma anche per sound, lui aveva qualcosa che tanti altri grandi cantautori non avevano: la musica, la superband, il groove, il senso del ritmo, il saper parlare alla testa come al cuore, all’anima come ai piedi. “Yes I know my way” credo sia stato il primo funky italiano, arrabbiato, combattente, ma funky, anzi funkyssimo. Daniele sta a Napoli come Marley alla Giamaica. Come James Brown alla black music». Agli amici Pino confessava di aver imparato molto, a suo volta, da Lorenzo: «Frequentarlo, durante e dopo il tour del trio, mi ha consegnato una leggerezza nell’affrontare la quotidianità che avevo perduto», ammetteva, «Prima avevo paura di scendere per strada, di mischiarmi tra la gente, l’affetto del pubblico si trasformava in paranoia. Il suo sorriso, la sua semplicità, la sua maniera di affrontare le cose, e il successo, mi hanno aiutato non poco a fare la pace con me stesso, a ritrovare una normalità che credevo non essere più alla mia portata». Lorenzo in quei giorni canticchiava «Putesse essere allero», aveva studiato il dialetto per penetrare la poetica popolare di quel blues del Mediterraneo. Magari potrebbe chiedere a James di soffiare forte nel suo sax proprio sulle note di quell’antica perla. Quando tornò al San Paolo, stavolta ospite del lazzaro felice, il 18 luglio 1998, rappò chiaro e forte la sua ammirazione, devozione, amicizia: «Generazioni cresciute col suono di Pino Daniele/ la sua voce ci ha spinto come fossimo vele/ sul mare delle emozioni/ le sue canzoni il grido che è della città/ del vulcano che illumina la verità/ come una ninna nanna, come un grido di guerra/ come un canto d’amore per una donna/ per questa terra, per questa gente, per questi quartieri/ di grandi culture. di bianchi e di neri/ di vento, di Africa e sole orientale/ Pino Pino Pino Pino Daniele… Napoli Napoli Napoli capitale/ Pino Pino Pino Daniele». Vai Lorenzo vai mo’, sarà tenera la notte dell’abbraccio con Eros e con James, dell’abbraccio al mascalzone latino.
di Federico Vacalebre
“Pino Daniele – Vai mò”, il post di Cesare Monti
Dopo il primo post tratto dal blog di Cesare Monti in cui ha raccontato il significato dell’artwork del disco “Pino Daniele” , in questo post del 2012 invece racconta dell’incontro con Pino (qualche anno dopo quel disco) in occasione della realizzazione di Vai Mò.
Post di Cesare Monti, venerdì 18 maggio 2012.
Quando lo incontrai per la prima volta, Pino era un ragazzo semplice e molto timido, poi quel suo modo di parlare un pò sottovoce ne facevano una persona deliziosa. Rincontrandolo dopo un paio di long playing anche se non erano cambiati i suoi modi, vidi che qualcosa in lui era mutato, era più sicuro anche quando camminava aveva un portamento convincente. In un momento di pausa quando a casa mia ci si trovava in cucina e le barriere cadevano, chiesi cosa gli era successo. Dopo aver bisbigliato frasi incomprensibili si decise a parlare con più chiarezza. L’anno prima il comune di Napoli aveva organizzato un grande raduno musicale in Piazza del Plebiscito. C’erano almeno duecento mila persone, ad un certo punto toccò a lui, salito sul palco fu accolto da una ovazione incredibile, dopo poco attaccò il pezzo che lo aveva reso celebre “Na tazzulella e caffè”, ma non riusciva a sentire la sua voce perchè tutta la piazza la cantava.
“ Capisci Cesare?!” mi disse ed io risposi “ E’ naturale, la conoscono tutti” e di nuovo Pino “E’ vero ma sentirla in quel modo mi dette i brividi, ma la cosa che mi fece riflettere era che stavano cantando una canzone che avevo composto scherzosamente mentre ero al cesso!!!”
Il rapporto che ho avuto con molti dei musicisti con i quali ho lavorato non si esauriva con la foto, o il progetto della loro copertina, andava oltre. Succedeva che passando da Milano venissero a trovarci, si mangiava insieme e si parlava di tutto, dei desideri, dei sogni, delle difficoltà, della vita insomma, alcuni si fermavano a dormire adattandosi, anche perchè non avevamo una stanza per gli ospiti. Durante una serata di queste, Pino mi raccontò che la canzone “Je sò pazzo” prendeva spunto da una sua esperienza. Aveva due zie con le quali viveva, da piccolo quando combinava qualche pasticcio o disubbidiva le due per punirlo lo rinchiudevano in una stanza che stava sul loro pianerottolo lontana dal loro appartamento. Dentro era buio pesto, succedeva che dopo poco tempo sentisse una presenza, non era amichevole perchè gli bisbigliava che da lì doveva andarsene. Non disse mai nulla per paura di essere considerato pazzo, ma all’età di diciotto anni fece delle ricerche e scoprì che quella era stata la casa di Masaniello l’eroe popolare che nel settecento si era messo a capo della rivolta di Napoli. Da qui è nata la frase “ I su pazzo masaniello è turnato”.
Post tratto dal blog di Cesare Monti
«Ciao amico vero, finto scorbutico, ma umile con tutti»
(6 gennaio 2015)
Il ricordo di Gino Paoli
Un artista, uno di quelli veri, è come una mosca sulle ali di un’aquila. Sale in alto, ma non dimentica mai come è arrivato lassù. Qualcuno ce l’ha portato. Quelli che sono venuti prima di lui. Pino Daniele era un artista vero. E morire così giovane è una cosa tremenda. Soprattutto in Italia dov’è facile dimenticarsi delle persone, che si chiamino Sergio Endrigo o Umberto Bindi. Ogni tanto qualcuno mi chiede se è vero che un artista vorrebbe sempre andarsene mentre è sul palco. Credo di sì. Che sia una vittoria perché in quel momento la gente è venuta ad ascoltarti. È la conferma che sei ancora vivo.
A Pino non è successo, ma ogni volta che entrava in scena, e lo ha fatto sino all’ultimo, sapeva di dover stare attento. In quei momenti un artista vero palpita di adrenalina, che al cuore non fa per nulla bene. E lui aveva un cuore malandato da anni. Eppure rischiava. Ha fatto quello che voleva sino in fondo, anche sapendo a cosa andava incontro.
Lo conoscevo quasi da sempre. Quasi quarant’anni fa ho fatto una serata al Teatro Tenda con un gruppo chiamato Napoli Centrale. Pino era il bassista. All’epoca avevo un impresario, Willy David, che voleva fare anche il produttore. Qualche tempo dopo mi dice: «Puoi venire ad ascoltare questo ragazzo, non riesco a capire se devo portarlo avanti oppure no…». Credo fossimo a un Premio Tenco: Pino cantava “’Na tazzulella ’e cafè” accompagnato alle percussioni da Tony Cercola. L’ho ascoltato con attenzione, poi ho detto a David «con questo sì che te la cavi, è sicuramente uno che vale qualcosa…». In seguito ci siamo visti spesso, e per il mio album “Appropriazione indebita”, nel 1996, gli ho chiesto se potevo cantare “Napule è”: poche volte ho visto un collega così sinceramente contento di affidare una sua canzone a un altro. Che volete che vi dica? Pino Daniele era proprio un buon ragazzo.
A volte lo scambiavano per scorbutico ma era solo un equivoco: non ci vedeva bene e dava questa impressione. La gente mi chiedeva: ma non guarda mai in faccia? E io sorridevo perché capivo la sua tensione ad andare sul palco, con quel suo cuore, ma anche la sua voglia di starsene concentrato a pensare alla musica. Pino viveva per suonarla davanti alla gente, oggi invece ci si rifugia dietro un disco, che è più facile. Era assorto sulla propria vena creativa, quindi poteva sembrare scontroso o indifferente. La sua vita d’artista era più importante di tutto il resto.
Così imparava tutto da tutti, macinava Napoli ma anche il resto del mondo. Ed è così che si fa. Illudersi di inventare qualcosa è da idioti, avere l’umiltà di fare proprie tante idee di chi è venuto prima invece è il modo giusto di fare questo mestiere. Pino cantava se stesso, e così raccontava Napoli. E lo faceva tutto da solo. Come un vero cantautore. Categoria un po’ autistica, se ci pensate bene. Ci chiamò così Maria Monti, volendo trovare un nome a gente che non voleva spartire nulla con gli altri. Pino aveva imparato alla perfezione, mi diceva che scriveva di getto musica e parole. In questo modo oggi continua a vivere nella musica. Lo so, sembra una consolazione perché se pensi che non c’è più ti si stringe il cuore. E vale per tanti altri bravi artisti. Però è anche vero che quando se ne vanno quelli davvero bravi, ti senti più povero, ti manca la loro compagnia, la loro creatività. Ecco perché ogni giorno, ogni volta che vai su un palco pensi che ciò che dai alla gente ti farà vivere ancora, anche dopo che non ci sarai più. E vale anche per uno scienziato, un pittore, uno bravo nel suo lavoro. Mentre quello che hai preso agli altri scomparirà con te. Sulle ali dell’aquila, la mosca potrà essere anche pochi millimetri più in alto. Ma dovrà sempre mostrargli gratitudine.
di Gino Paoli